Salita al Passo dello Stelvio (parte settima)

Da li tre baraca al tornaché  cielo, terra, mare. (Dalle tre baracche al tornante cielo, terra, mare.)

# tre baracche

Dopo il breve scambio di presentazioni è tornato il silenzio. Silvano è davanti a me. L’ho lasciato sfilare per rispettare il suo passo e per studiarlo. L’ho inseguito per alcuni chilometri ma solo ora posso ammirare il suo modo di camminare. Avanza con la brillantezza di un giovane e il passo sicuro di un esperto alpinista. Quel passo affinato da migliaia di chilometri percorsi in montagna, in ogni condizione ambientale e meteorologica. Chi cammina in questo modo lo riconosci subito.

A vederli, quegli uomini, sembra che non tocchino nemmeno il suolo tanto lo accarezzano con leggerezza. Ma la vera magia è che questo gesto lo farebbero anche ad occhi bendati. Piedi, caviglie, ginocchia, bacino, spalle, insieme hanno maturato una sensibilità talmente elevata che pare non abbiano più bisogno della vista per sapere dove andare. Non hanno bisogno di vedere dove poggerà il prossimo passo. Gli basta sentire il terreno. Lo accarezzeranno col piede e in un attimo trovano il perfetto punto di equilibrio.

Grazie a questa incredibile capacità cognitiva, gli occhi sono liberi di guardare lontano. Possono ammirare gli animali, le loro tracce, gli incredibili paesaggi. Allo stesso modo anticipano il cammino cercando il percorso più facile e sicuro. Possono osservare le evoluzioni meteorologiche, la caduta di sassi, i segni del vento, della neve, dell’acqua e del gelo. Tutte osservazioni utili per scegliere il percorso migliore.

Questa mattina quelle particolari sensibilità non servono. Siamo su una larga e comoda strada asfaltata. Insidie e pericoli non ce ne sono. Gli occhi possono concentrarsi solo sulla incredibile bellezza dell’ambiente.

Nel breve tratto percorso insieme, ho notato che il vecchio ha ripetutamente gettato lo sguardo prima verso l’alto e poi verso il basso. Suppongo che stia osservando i segni ancora visibili del grande incendio di fine anni ’70. L’incendio divampato dalla discarica delle tre baracche. Quel grande sarcofago di immondizia che aveva preso il posto delle teleferiche e del capolinea della filovia. Ennesimo atto di violenza al passato.

Per fortuna tra il 1981 e il 1983, ora non ricordo bene l’anno, la discarica fu bonificata. Anche dello sciagurato incendio, molto lentamente, stanno guarendo le ferite. Dopo molti decenni la natura si sta lentamente riprendendo e ai nostri giorni, al tornante sopra le tre baracche, la vegetazione sta tornando a crescere rigogliosa. Questo almeno alle quote più basse, quelle più prossime alla strada. Più in alto, là dove la vita è già di per sé una dura conquista, ci vorrà ancora del tempo. E’ incredibile come l’uomo, in brevi attimi di noncuranza, possa danneggiare secoli di vita.

Camminiamo, guardiamo, pensiamo. Parlo al plurale perché sono sicuro che anche il mio compagno di viaggio stia facendo lo stesso. Anche se non ci siamo ancora realmente parlati o confrontati, lo sento vicino. E’ solo un presentimento, certo. Ma quante volte nella mia vita di tutti i giorni mi sono affidato alle sensazioni? Quante mie scelte sono state affidate all’istinto ancor più che alla ragione? Negli ultimi anni sono cambiato. Tutto è più ragionato, progettato, analizzato. Ma le scelte dettate dall’anima fanno ancora parte di me. E’ stata la montagna stessa a insegnarmi ad ascoltare le voci interiori. Quei sussurri che ti aiutano a scegliere il cammino, a rinunciare quando non è il momento giusto, a osare quando la paura è irrazionale.

Al pontin del cion (ponticello del maiale) vengo rapito dalla bellezza del monte Radisca. E’ là, al centro del paesaggio. La lingua di asfalto che porta al tornante cielo, terra e mare, sembra fatta apposta per convogliare lo sguardo su quella montagna. Da qui sembra più che mai irraggiungibile. Le sue verticali pareti rocciose. Le ripide cenge. I corsi d’acqua che precipitano verso valle interrotti da alte cascate. Qualche pianta pioniera, nata in posti impensabili, sfida il vuoto slanciandosi verso l’alto, attaccata alle rocce come un ragno alla sua ragnatela.

Che buffo. E’ incredibile come le cose possano cambiare a seconda del punto di vista dal quale si osservano. Sia per la natura che per gli uomini. Quella montagna tanto imponente vista da quaggiù, sembra poco più di un dosso se osservata dal versante opposto o dal passo Stelvio. Incredibile come ogni cosa possa cambiare se osservata con occhi diversi.

Guarda!” – dice Silvano puntando il dito verso il pian di pec (piano dei pini mughi).

Prima di gettare lo sguardo all’orizzonte, verso il punto indicatomi dall’anziano, osservo la sua mano. Sono curioso di scoprire qualcosa di più del mio misterioso compagno di viaggio. Cosi come aveva fatto il volto, anche quell’arto racconta inequivocabilmente i segni del tempo. La pelle, persa la sua elasticità, ha lasciato profonde pieghe su nocche e giunture. Ma c’è dell’altro. Quel dito che indica l’orizzonte è un dito tozzo, forte, muscoloso. Quella di Silvano è sicuramente una mano che ha stretto molte cose nella vita. Forse la vita stessa.

Probabilmente, chiedendo a Silvano del più o del meno otterrei maggiori informazioni di quelle che sto cercando. Di solito con gli anziani basta una domanda per farli sbottonare. Spesso sono talmente esausti e avviliti della loro solitudine, che il porgli una domanda anche banale, diventa il più grande atto d’amore nei loro confronti. A volte basta proprio poco per far illuminare il viso dei vecchi.

Quest’uomo però mi dà l’idea di essere diverso. Una persona molto riservata e con un’anima abituata dalla vita a starsene da sola e in disparte. Uno di quei personaggi forgiati dalla dura vita in montagna. Uno di quegli uomini tanto generosi, quanto silenziosi e parchi. Ma la mia è solo una sensazione. E’ nuovamente una folle sensazione.

«Un gipeto» dico guardando in direzione dell’uccello. «E’ veramente una bestia enorme.»

Il vecchio mi guarda. Sorride. Il suo sguardo è sereno e luminoso. I suoi occhi brillano di meraviglia. E’ solo un istante perché l’uomo volge nuovamente lo sguardo verso l’avvoltoio. Nemmeno una parola. Tutto è tornato in assoluto silenzio.

Anche io torno a guardare quel gigantesco uccello. Ricordo benissimo la prima volta che l’ho visto. Erano i primi anni ’90. Aspettavo mia sorella all’uscita di scuola. Avevo accompagnato mio papà. Eravamo vicino al cancello delle scuole elementari di Bormio. Io, come ogni bambino, raccontavo al mio babbo avventure, scoperte e fantasie. Lui mi guardava con tenerezza. Guidava i miei ragionamenti dandomi l’illusione che fossi io a indirizzare i suoi. Come tutti i bambini credevo che gli adulti fossero sempre stati grandi e che non conoscessero le avventure e i sentimenti dei fanciulli.

Improvvisamente, guardando verso la gesa rota (chiesa rotta), avevamo visto il gipeto. Era una bestia nuova anche per lui. Da poco tempo erano cominciati nel bormiese gli avvistamenti di quel grande rapace diurno. La meraviglia era un sentimento comune per chi avvistava quel volatile. L’animale, scomparso da decenni sull’intero arco alpino, era da poco stato reintrodotto in natura. Liberato in Austria, Francia e Svizzera, aveva trovato la sua casa nelle nostre valli. Io e il mio papà eravamo rimasti a lungo con la testa all’insù a guardare quell’enorme uccello che volava pochi metri sopra le case. Sembra un aliante, dissi a mio padre.

In un’altra occasione, alcuni anni dopo, me la feci proprio sotto. La zona era la stessa nella quale sta volteggiando ora. Camminavo con i miei due cagnolini sul sentiero che porta verso i fortini. A un tratto, in maniera decisamente insolita, i cani si misero a camminare tra le mie gambe. Su di noi il sole scomparve. Alzato d’istinto lo sguardo, restai di sasso. Sopra di me, dagli otto ai dieci metri di distanza, c’era il gipeto. Con i suoi quasi tre metri di apertura alare nascondeva il cielo. Se ne stava fermo, immobile. Ricordo con chiarezza i suoi occhi rossi. Per tre o quattro volte fece delle brevi picchiate verso di noi. Cadeva per un paio di metri e poi riapriva le ali riprendendo progressivamente quota. I miei cani erano terrorizzati. Io, inutile dirlo, più di loro.

Salita allo Stelvio (parte VII) – testo romanzato di Stefano Bedognè

Nota dell’autore: A causa dell’isolamento da Covid19 non è stato possibile recarsi sui luoghi descritti per fare fotografie da allegare al racconto. Tuttavia è stata introdotta una validissima alternativa. Cliccando sui toponimi indicati in grassetto (nel testo) si apre il link a google street view. In quella scheda il lettore potrà visualizzare a 360 gradi il punto che si sta raccontando. 

N.B. Le traduzioni dal dialetto alla lingua italiana non sempre sono possibili o, per meglio dire, spesso hanno significati ambigui e differenti. Vanno quindi intese nel loro contesto e sopratutto valutate per il loro toponimo più che per il loro significato letterario.

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