Salita al Passo dello Stelvio (parte sesta)
Dal dos de la fornasc al tornaché de li tre baraca. (Dal dosso della fornace al tornante delle tre baracche.)
# salita al passo dello Stelvio
Fermo sul lato destro della carreggiata, nel punto più nascosto di tutta la curva, c’è lui. Il misterioso personaggio è un uomo sulla settantina. Capelli grigio cenere corti e spettinati, fanno contrasto a una barba anch’essa corta ma chiara e ben curata. I tratti del viso mostrano inequivocabilmente i segni del tempo e della vita. Le guance, il mento, la fronte spaziosa, tutti segnati da profonde rughe e pelle increspata. A raggelarmi è però lo sguardo intenso e penetrante. Gli occhi sembrano quelli curiosi e innocenti di un bambino. Una bianchissima sclera fa da perfetta cornice a un iride dal colore indefinibile; una magica mescolanza tra varie tonalità di grigio, verde e azzurro. La nitida pupilla è di un nero talmente profondo da sembrare la porta dell’infinito. Ho incrociato centinaia di migliaia di sguardi nella mia vita ma mai uno come questo.
A dispetto dell’apparente età del volto il fisico sembra non aver ancora subito l’incurvamento tipico della vecchiaia. Alto poco meno di un metro e settanta. Magro ma con una muscolatura dalla tonicità ancora evidente. Indossa comodi pantaloni in velluto marrone, una camicia scozzese con le maniche rivoltate fino al gomito e un gilet di lana cotta dalla classica tinta grigiastra. Sulle spalle, non mi ero sbagliato, porta uno zaino vecchio modello in tela verde oliva. Ai piedi un paio di scarponcini leggeri in pelle.
«Buongiorno» mi dice.
«Buongiorno» rispondo prontamente e chinando delicatamente il capo in avanti.
«Vedo con piacere che anche questo giovanotto stamane si è svegliato presto per godere di questa meraviglia.»
La voce dell’uomo, pacata e suadente, sembra essere sintonizzata in perfetta armonia con i suoni della natura che ci circondano.
«Eh già. Era un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire. E a onor del vero quando sono partito mi ero illuso di non incontrare nessuno lungo il cammino.»
«A quanto pare la divina provvidenza aveva progetti differenti» disse sorridendo.
«Figliolo» continua l’uomo «poco prima del tornante dell’AEM guardando sotto strada in direzione della val di Campello, ti ho visto camminare. Ero abbastanza certo che tu non mi avessi visto perché sembravi completamente assorto nei tuoi pensieri. Nel momento in cui ti osservavo tu stavi guardando più in basso, verso la Piana di Molina e la chiesa di San Gallo. Da li in avanti, ogni volta che mi sono voltato ti ho sempre visto sui miei passi. Devo dire che in più di un’occasione ti ho notato assente e stralunato. Uno strano tipo mi sono detto. Ad ogni modo, non ti nascondo il sollievo che ho vissuto nel sapere che un anima mi stava seguendo. Sai com’è? A una certa età non si sa mai cosa possa capitare. Diciamo che ti ho immaginato come il mio angelo custode.»
Non so descrivere il mio stato d’animo alla vista di quei profondi occhi indagatori e al suono di quella ammaliante voce. Gli strani brividi provati al momento dell’incontro sono scomparsi. Benessere e tepore avvolgono il mio corpo e la mia mente.
«Ti dispiace se proseguo un tratto con te?» continua l’uomo guardandomi dritto negli occhi.
«Con piacere» rispondo falsamente volgendomi verso Boscopiano per fuggire al suo sguardo.
Dico falsamente perché quell’uomo emana un energia invisibile che mi attrae misteriosamente a sé, ma il mio animo, come già raccontato, era partito da casa alla ricerca del silenzio e della più completa solitudine. Non posso tuttavia negare, che la voglia di raggiungere il vecchio aveva negli ultimi chilometri completamente offuscato i miei iniziali piani e desideri. L’angoscia e i folli sentimenti provati fin da quando ho intravisto quella sagoma sul rettifilo de la fontanecia, sono più che mai vivi nella mia testa.
Mentendo non ho avuto il coraggio di reggere il suo sguardo. Non so se ho mentito per rispetto dell’anzianità o per semplice educazione. In realtà, in questo momento, sono talmente confuso che non so nemmeno se ho mentito a lui o a me stesso. Alla risposta non ho neppure pensato. Non so neanche se è mia. Se n’è uscita da sola in maniera naturale, semplice e immediata. Una risposta di puro istinto.
Tra l’altro, se è vero ciò che dice, lui si era accorto di me molto prima che io mi accorgessi di lui. Da Bormio il nostro passo è stato più o meno il medesimo. Anche se gli dicessi di no, difficilmente ci allontaneremmo troppo l’uno dall’altro. A questo punto tanto vale vedere cosa ci ha riservato la divina provvidenza, come lui ha giustificato il nostro inaspettato incontro.
A interrompere i miei folli ragionamenti è di nuovo quella indescrivibile voce:
«Se non ti dispiace riprendiamo il cammino. Non vorrei che quest’aria del Braulio mi porti malanno.»
«Ha perfettamente ragione. Oggi è più tagliente del solito.»
Ci rimettiamo in marcia e in un attimo, con la testa piena di nuvole, siamo al ponte delle tre baracche.
«Signore, perdoni la mia maleducazione nel non essermi presentato. Io sono Giovanni.»
«Non ti preoccupare figliolo, ti conosco.»
Mi conosce? Ecco. Un’altra figuraccia. Quell’uomo mi conosce e io non ho la benché minima idea di chi esso sia.
«Oh mi perdoni. Faccio spesso di queste brutte figure.»
«Non dirlo nemmeno per scherzo. Non c’è alcun problema.»
Cosi come non ho la forza di guardarlo negli occhi, ora non ho più nemmeno il coraggio di chiederne il nome. Temo l’imbarazzo di una nuova brutta figura.
Per lavoro, passo talmente tanto tempo con gli ospiti del nostro albergo, che conosco più loro dei miei paesani. Anche perché i pettegolezzi di paese e lo studio approfondito degli alberi genealogici, tipico di chi passa il proprio tempo nell’analisi approfondita dei fatti altrui, non mi hanno mai particolarmente interessato. Quando sono fuori dal lavoro sento spesso il bisogno di stare da solo. E’ il mio modo di ricaricarmi. Di rimettermi in armonia con me stesso. Per me è vitale. Lo sanno bene anche le persone che mi amano. Se non sto bene con me stesso divento nervoso, irascibile, impaziente, noioso, a tratti forse anche cattivo. Proprio l’esatto contrario di quello che vorrei essere.
Spesso mia madre mi ammonisce di non essere capace di mezze misure. Come amorevolmente mi rimprovera, la parte peggiore tocca sempre a chi mi vuole bene. Inutile dire che lei ha perfettamente ragione. Ma d’altro canto, esiste qualcuno in grado di conoscere gli altri meglio che una mamma il proprio figlio?
«Se vuoi puoi chiamarmi Silvano» dice l’uomo riportandomi alla realtà.
«Cerco di sforzarmi ma non ricordo di averla mai incontrata.»
«E’ possibile che non ti ricordi. Mi piace sempre stare in disparte a osservare gli altri. Forse è anche per questo che non hai memoria di me. In ogni caso ti assicuro che ci siamo già incontrati, fin da quando eri bambino. Conosco bene tutta la tua famiglia. Brava gente. I vostri affezionati ospiti parlano sempre in maniera entusiasta di voi.»
«Beh si, siamo fortunati. Molti di loro si possono tranquillamente chiamare amici più che clienti.» Rispondo accennando un sorriso orgoglioso ma carico di imbarazzo.
«Mi deve nuovamente perdonare signor Silvano. La realtà è che sono un disastro con nomi e fisionomia.»
«Ti ho già detto che non ti devi preoccupare. Ma piuttosto caro Giovanni, rimettiamoci in cammino.»
Senza aggiungere altre parole, affiancati e in rigoroso silenzio terminiamo il pianeggiante rettilineo che porta al tornante delle tre baracche.
Difficile immaginare che in questo luogo fino agli anni ’60 c’era una filovia. Filovia dello Stelvio la chiamavano. L’AEM l’aveva realizzata per il trasporto dei materiali necessari alla costruzione della grande diga di San Giacomo. Qui, al capolinea, il carico veniva tolto dai filocarri e condotto fino a Cancano, o alla centrale del Braulio, grazie a due diverse teleferiche.
Certamente non fu l’azienda energetica ad inventare questo tipo di trasporti. Essa però li sfruttò in maniera sistematica come forse nessun altro al mondo.
Le teleferiche in questi luoghi erano già state ampiamente utilizzate durante la prima guerra mondiale e, probabilmente, pure nel secolo precedente per lo sfruttamento minerario. Anche la filovia tra Tirano e Bormio non era una novità assoluta. Il regio Esercito l’aveva infatti realizzata nel 1918.
A parte i freddi numeri, quel che è certo è che queste opere furono qualcosa di incredibilmente avveniristico. Con gli occhi di oggi, credo che lo smantellamento della rete filoviaria fu una gravissimo errore. Una delle tante violenze al passato e al territorio perpetrate negli anni ’60 e ’70. Il periodo del boom economico ed edilizio dell’alta valle. Decenni dai quali tutto, o quasi, ha cominciato a essere avidamente sacrificato sotto il nome di futuro, denaro, benessere.
Oggi in molti sognano il treno fino a Bormio. Chissà in quanti, di quei sognatori, sanno che cento anni fa quel sogno era quasi realizzato?
A volte credo che per immaginare il futuro sia sufficiente volgere lo sguardo al passato.
Salita allo Stelvio (parte VII) – testo romanzato di Stefano Bedognè
Nota dell’autore: A causa dell’isolamento da Covid19 non è stato possibile recarsi sui luoghi descritti per fare fotografie da allegare al racconto. Tuttavia è stata introdotta una validissima alternativa. Cliccando sui toponimi indicati in grassetto (nel testo) si apre il link a google street view. In quella scheda il lettore potrà visualizzare a 360 gradi il punto che si sta raccontando.
N.B. Le traduzioni dal dialetto alla lingua italiana non sempre sono possibili o, per meglio dire, spesso hanno significati ambigui e differenti. Vanno quindi intese nel loro contesto e sopratutto valutate per il loro toponimo più che per il loro significato letterario.
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