Salita al Passo dello Stelvio (parte decima)

Dalla prima cantoniera alla galleria del diroccamento

In silenzio e di buon passo ci incamminiamo in direzione della galleria del diroccamento. Ci aspetta una breve serie di stretti tornanti e, sul primo di questi, il mio occhio viene catturato dal perfetto allineamento tra la sede stradale e le funi della linea ad alta tensione. Non capita molto spesso di poter osservare quei possenti cavi d’acciaio da questa particolare angolazione e, per un breve istante, ho persino la folle illusione di poter attraversare la valle appeso a quei robusti fili elettrici.

Silvano sembra non essersi accorto del mio pensiero e continua a camminare con il suo passo sicuro e ben cadenzato. La sede stradale, in questo tratto, corre circondata da una verdeggiante vegetazione di pino mugo. Qua e là, qualche piccolo arbusto a latifoglie, rompe la monotonia di verde con i suoi caldi colori autunnali a tinte rossastre. Un artistico muro a secco abbraccia il ripido versante sul lato di monte. Un arrugginito guard rail in corten protegge dalle cadute sul lato di valle.

Con la svolta del primo stretto tornante il paesaggio cambia improvvisamente e in maniera radicale. Sopra di noi svetta, alto e massiccio, il muro di sostegno del “terz tornachein” (terzo tornante stretto) della prima cantoniera. Il monte Scorluzzo e l’alta Valle del Braulio sono scomparsi dall’orizzonte. Sullo sfondo c’è solo cielo. Un cielo blu intenso, limpido e pulito come è il cielo delle fredde mattine d’autunno dopo alcuni giorni di pioggia.

Io e Silvano camminiamo con buon ritmo ma senza eccessivo affanno. Credo che entrambi vogliamo lasciarci il tempo di ammirare ciò che ci circonda. Tutto è meraviglioso.

Improvvisamente, senza nemmeno rendermene conto, mi trovo ad osservare come il breve rettilineo che stiamo attraversando presenti una forte inclinazione da valle verso monte. Questa apparentemente strana pendenza, contrapposta al pendio, mi riempie di curiosità. Cerco qualcosa che possa aiutarmi a capire e cosi, osservando con maggiore attenzione la sede stradale, scovo in bella mostra tombini e canali di scolo. Non avevo mai notato questi particolari o, forse, solo in questo momento li sto osservando con un curioso occhio indagatore. Mi ritrovo cosi a pensare che, questo tratto di strada, è forse uno dei primi punti salendo da Bormio dove è possibile percepire pienamente la mano del progettista. In realtà tutta questa strada fu un capolavoro di ingegneria, dal primo all’ultimo metro. Qui però il Donegani seppe disegnare un percorso capace di risalire il pendio avvolgendosi su se stesso come le spire di un serpente. Stretti tornanti, intervallati da brevi rettilinei, permettono ancora oggi di guadagnare velocemente quota mantenendo una pendenza stradale relativamente limitata. Queste accortezze, amate dai ciclisti dei nostri giorni, erano a dir poco fondamentali per gli anni in cui i motori non erano ancora stati inventati e la forza di movimento era a uso esclusivo di uomini, cavalli, asini e muli. Senza dimenticare che qui il percorso risultava quasi obbligato a causa del burrone sottostante e delle valli torrentizie e valanghive poste ai lati di questa dorsale.

Con questi pensieri nell’animo resto ammaliato dall’ingegnoso sistema di gestione delle acque. Il progettista, per proteggere la strada, allora sterrata, dalla feroce erosione delle acque piovane, ideò un geniale sistema di tombini e canali sotterranei. Sul lato di monte di ogni rettilineo, in corrispondenza del calo di pendenza dovuto all’approssimarsi del nuovo tornante, si trova una caditoia. Quest’ultima, per evitare qualsiasi tipo di incidente ai mezzi in transito, fu realizzata oltre il margine esterno della carreggiata e coperta da una lastra in pietra. L’acqua che cadeva nel tombino veniva poi condotta al lato di monte del rettilineo successivo grazie  a un breve canale interrato. Qui le acque piovane tornavano a scorrere all’aria aperta lungo la cunetta di monte. Il tutto veniva cosi ripetuto a catena fino al punto più basso di questa serie di tornanti dove, un ultimo canale sotterraneo liberava alla natura l’incostante e inconsueto ruscello.

Ai giorni nostri, purtroppo, l’incuria e opere manutentive poco ragionate hanno parzialmente compromesso la funzionalità di questo ingegnoso sistema, lasciando all’acqua la possibilità di scorrere e ghiacciare là dove un tempo non era possibile. La maniacale cura delle cunette messa in atto dagli stradini di un tempo, è oggi purtroppo solo un lontano ricordo a meno che, e duole dirlo, non si valichi il confine della vicina Svizzera.

Con questi pensieri nella testa il “secondo e terzo tornantino della I cantoniera” sono ormai alle spalle.

Al “tornachein di fortin” (tornante stretto dei fortini), un fugace raggio di sole vince l’ombra della valle. La sfera di luce sta per varcare definitivamente il crinale della Reit. In un istante i folti pini mughi che circondano la carreggiata si sono tinti d’argento. Ogni cosa sembra improvvisamente svegliarsi e riempirsi nuovamente di vita. E’ solo un breve istante ma è sufficiente per capire che tutto sta per cambiare.

Il vecchio mi guarda, alza le sopracciglia, accenna un sorriso. Con un solo cenno ci siamo intesi.  Non c’è bisogno di sprecare nessuna parola.

Da alcuni minuti tra me e Silvano è tornato il silenzio ma, mio malgrado, non riesco ancora a non ripensare alle sue brevi affermazioni. Cosa intendeva definendomi un uomo con la maschera? Come è possibile che mi abbia visto laggiù al pontino senza che io in nessuna occasione mi sia accorto di lui? E si che sono ormai numerose le volte in cui sono sceso laggiù in fondo per fuggire dal mondo. Anche se solo per pochi minuti, in quel luogo isolato e senza copertura telefonica, ogni volta riesco a disconnettermi dalla tecnologia, dalle persone e dalla frenesia della quotidianità. Sempre più spesso sento il bisogno di nascondermi in luoghi come quello. Angoli isolati nei quali nessuno mi può trovare e dove posso scollegarmi da tutto per ritrovare la giusta armonia con me stesso e con ciò che mi circonda. Luoghi potenti e misteriosi dove l’evoluzione tecnologica non ha nessun senso. Ambienti nei quali un telefonino ha meno valore di una bottiglia di plastica. Quest’ultima, anche se vuota, può almeno essere usata come borraccia. Al contrario, anche i più costosi smartphone cosa valgono se vuotati di carica o connettività? Spesso mi domando se possano essere loro il Grande Fratello teorizzato da Orwell? Dico cosi perché ci sono giorni in cui quell’aggeggio infernale lo odio profondamente. In qualche occasione credo persino che quell’oggetto sia una terribile droga. Ci sono giorni nei quali passo talmente tante ore con il telefonino tra le mani che a volte mi sembra di non potermene allontanare.  Per lavoro e per altri impegni di carattere sociale che negli anni mi sono assunto, il mio telefono è acceso ventiquattrore al giorno. Sette giorni su sette. Troppo spesso suona a qualsiasi ora del giorno e della notte. Spesso per cose inutili. Ci sono momenti nei quali tutto questo diventa quasi insostenibile. Vorrei spegnere quell’aggeggio. Vorrei disconnettermi dal mondo. Vorrei non dovere avere in ogni istante una risposta pronta e immediata, per tutto e per tutti. Ma non posso, o forse, non ho il coraggio di farlo. Per questo a volte fuggo in luoghi cosi. Solo li riesco a stare veramente da solo, nel mio presente.

Quando poi torno in zone con copertura, tutto quello che avevo fuggito ripresenta il suo conto. Una serie di bip bip e vibrazioni fanno da colonna sonora a messaggi e promemoria di chiamate perse.

Se mi guardo intorno nella quotidianità vedo che ben pochi non soffrono di questo male. Ricordo qualche tempo fa quando appoggiato al bancone di un bar mi trovai a osservare una giovane coppia seduta in un tavolo del locale. Erano due fidanzatini tra i sedici e i diciotto anni. Si avvertiva chiaramente che fosse una delle loro prime uscite insieme. Entrambi erano muti, seduti uno di fronte all’altro e intenti a scrivere messaggi. Guardando verso il mio amico barista notai che anche lui stava osservando la stessa scena. Li sbirciammo a lungo ma tutto rimase pressoché invariato per l’intera serata. Ancora oggi ricordo con chiarezza le parole cariche di tristezza del mio amico Cristoforo:

«Stanno sprecando uno dei ricordi più belli della loro vita. I primi incontri non torneranno mai più.»

Gli smartphone sono poi il gioco di adulti e bambini al ristorante, in mezzo alla strada, in mezzo al bosco. Ovunque si vedono persone con la testa bassa. Persi nel loro mondo di dati si perdono il mondo di emozioni che li circonda. E io, spesso, non ne sono da meno. Purtroppo.

«Sveglia ragazzo! Guarda il barbarossa come è bello stamattina!»

A parlare è Silvano. Fermo pochi metri alle mie spalle e con la mano puntata verso campo dei fiori.

«Barbarossa?» Rispondo curioso. Ma si! Il barbarossa! Non lo vedi la sulla roccia vicino alla cascata?»

«Che cascata? Quella che quando ghiaccia si scala? Spectra?»

«Si mi è capitato di vedere qualche funambolo picchettare su quel ghiaccio ma come la chiamino non lo so. In ogni caso, non vedi quella sagoma di occhi e naso disegnata tra le rocce?»

«Ah cavolo si! La vedo! Non l’avevo mai notata! Ma perché Barbarossa?»

«Perché i licheni che ci sono sotto, con la giusta luce, somigliano a una enorme barba rossa e per questo credo che abbiano voluto ricordare quel viso nella roccia come quella del celeberrimo imperatore. Ad ogni modo credo che in pochi l’abbiano osservata perché lungo la strada si vede solo da qui e le travi della galleria non agevolano la vista.»

Silvano ha sicuramente ragione. Qui la strada curva verso destra e questa galleria in cemento armato ad ampie finestre anticipa di pochi metri l’ingresso della galleria del diroccamento. Credo di non aver mai guardato fuori da queste aperture. Il mio inatteso compagno di viaggio mi ha nuovamente colpito. Chissà cos’altro mi aspetta lungo la salita?! Vorrei chiedere ancora qualcosa a Silvano. Vorrei provare a parlargli, ma si è già rimesso in cammino e sta entrando nello stretto tunnel in pietra. Il semaforo è verde. L’illuminazione, al contrario di quanto accaduto alla galleria della prima cantoniera, al passaggio dell’uomo si è immediatamente accesa. Ci risiamo, Silvano segna il passo e io lo seguo. Tutto tace.

Salita al Passo dello Stelvio (parte X) – testo romanzato di Stefano Bedognè

Nota dell’autore: A causa dell’isolamento da Covid19 e della chiusura invernale della strada, non è stato possibile recarsi sui luoghi descritti per fare fotografie da allegare al racconto. Tuttavia è stata introdotta una validissima alternativa. Cliccando sui toponimi indicati in grassetto (nel testo) si apre il link a google street view. In quella scheda il lettore potrà visualizzare a 360 gradi il punto che si sta raccontando. 

N.B. Le traduzioni dal dialetto alla lingua italiana non sempre sono possibili o, per meglio dire, spesso hanno significati ambigui e differenti. Vanno quindi intese nel loro contesto e soprattutto valutate per il loro toponimo più che per il loro significato letterario.